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di Antonio Vargiu

In un periodo in cui “impazza” l’uso dei social networks, tra cui continua ad imperversare Facebook -nonostante le statistiche che ne vedrebbero un declino- ci si può domandare dove viene trovato il tempo per agire e comunicare su questo canale di internet. E’ vero, in Italia aumentano i pensionati, ma non bastano a giustificare i “volumi” di traffico registrati. Molti cercano allora di conciliare non solo il proprio tempo libero, ma anche lavoro e Facebook.

Ma attenzione! Se siete una lavoratrice o un lavoratore dipendente, correte un rischio pesante: infatti l’uso eccessivo di internet o di Facebook che non abbia attinenza con le proprie mansioni di lavoro è motivo legittimo di licenziamento disciplinare.

Lo conferma una recentissima sentenza della Cassazione -Sezione lavoro (1)

I FATTI PRESI IN ESAME

Una dipendente di uno studio medico di Brescia viene licenziata dal proprio datore di lavoro, che, dopo un’analisi della cronologia del computer che le aveva messo a disposizione, scopre che -in orario di lavoro- aveva effettuato circa 6 mila accessi ad internet, di cui circa 4 mila e 500 a Facebook, negli ultimi 18 mesi, con durate anche significative.

 

 

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Si tratta, quindi, di un licenziamento disciplinare per “violazione degli obblighi di diligenza e di buona fede nell’espletamento della prestazione”.

Dopo il primo grado di giudizio, anche la Corte d’Appello di Brescia (2) respinge il ricorso della lavoratrice.

IL RICORSO IN CASSAZIONE

La dipendente licenziata contesta la sentenza di Brescia, che aveva fondato la propria decisione sui report di cronologia, con due motivazioni:

  1. a) questi report non avrebbero fornito sufficienti riscontri per provare la riferibilità alla lavoratrice degli accessi;
  2. b) ci sarebbe stata, da parte del datore di lavoro, una violazione delle regole sulla tutela della privacy.

Queste due obiezioni vengono respinte dalla Suprema Corte innanzitutto per una questione di metodo e di competenze.

In effetti questa sentenza ci dà l’occasione per sottolineare l’errore che comunemente si fa, quando si afferma -genericamente- che i nostri processi hanno tre gradi di giudizio.

In effetti i gradi di giudizio sono tre, ma due sono di merito e l’ultimo di legittimità.

 

Quindi, rispondendo alle richieste dei legali della lavoratrice, e rispondendo all’obiezione relativa alla cronologia, la Corte valuta come il giudice di merito abbia ampiamente motivato sulla validità della sua ricostruzione. In particolare appare molto convincente il ragionamento che si basa sul fatto che gli accessi alla pagina  personale di Facebook richiedono una specifica password, con la conseguenza che non possono esserci dubbi sulla riferibilità di essi alla “ricorrente” (la lavoratrice).

Invece, per quanto riguarda la non osservanza da parte del datore di lavoro delle regole sulla privacy, la Suprema Corte osserva che questa obiezione non è stata mossa nei gradi precedenti di giudizio, ribadendo, a questo proposito, che  «qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto. La carenza della predetta indicazione impone di considerare la questione come nuova, sicchè non può ammettersi il suo ingresso in sede di legittimità».

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LA SENTENZA

 

Conseguentemente la Corte di Cassazione, dichiarando “inammissibili entrambe le censure”, “rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori di legge…”.

(1) Corte di Cassazione , sentenza 1° febbraio 2019, n. 3133.

(2) Corte d’Appello di Brescia, sentenza 73/2016.

 

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