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di Antonio Vargiu

Anni importanti, gli ultimi trascorsi, ai fini della lotta ai contratti che giustamente vengono definiti “pirata”, perchè non solo non sono maggiormente rappresentativi, ma hanno anche una caratteristica, che solo con un eufemismo possiamo definire sgradevole, quella cioè di pagare meno i lavoratori.

 

Dalle sentenze alle sanzioni: l’intervento della magistratura e dell’Ispettorato nazionale del lavoro.

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In mancanza della validità “erga omnes” per i contratti comparativamente più rappresentativi, sono le sentenze a cercare di colmare –sia pure parzialmente-questa lacuna.

Una “pietra miliare” è la sentenza della Corte Costituzionale n.51 del 1°aprile 2015, che insieme a successive sentenze di Cassazione e di Consiglio di Stato (1), hanno contribuito a definire una specie di “giurisprudenza di sostegno” a favore dell’applicazione dei contratti comparativamente più rappresentativi nei vari settori produttivi.

Dobbiamo assolutamente riconoscere al da non molto costituito Ispettorato nazionale del lavoro, un forte impegno in questa lotta, accompagnata da circolari contenenti precise istruzioni per combattere l’evasione contributiva, che è la conseguenza dell’applicazione di tabelle retributive inferiori a quelle stabilite dai contratti comparativamente più rappresentativi.

 

La definizione di “contratto collettivo”.

 

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Questa importante definizione la troviamo nell’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015 – recante, tra l’altro, la “disciplina organica dei contratti di lavoro (…)”, il quale stabilisce che “salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano  nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.

 

In sostanza, quando le leggi rinviano alla contrattazione, dandole compiti di definizione di materie o di integrazione o di modifiche, si fa sempre riferimento ai contratti stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative.

       

Alcuni esempi riguardano le norme relative a:

       

  1. a) il contratto di lavoro intermittente,
  2. b) il contratto a tempo determinato,
  3. c) l’apprendistato.

 

La conseguenza è che gli effetti derogatori o di integrazione della disciplina normativa non possono trovare applicazione con i contratti “non maggiormente rappresentativi”.

 

Non potranno, quindi, essere applicati gli istituti di flessibilità previsti dal D.Lgs. n. 81/2015, che abbiamo citato, e, a seconda delle ipotesi,  può essere sancita anche la “trasformazione” del rapporto di lavoro “precario” in quella che, ai sensi dello stesso decreto, costituisce “la forma comune di rapporto di lavoro”,  ossia nel contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

 

 

La Circolare n.3/2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro

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Il suo cardine: la riflessione sull’azione di vigilanza.

 

Questa, partita da un settore particolare (servizi di Field Marketing), si è andata allargando a più ampio raggio, con lo scopo di impedire, per quanto possibile, azioni di dumping.

L’Ispettorato passa quindi, puntualmente, ad elencare i principi a cui ispira la propria azione e, sostanzialmente, ripercorre, spiegandolo ulteriormente, l’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015

“Il nostro ordinamento riserva l’applicazione di determinate discipline solo nel caso in cui siano sottoscritti o applicati contratti collettivi comparativamente più rappresentativi;

      ad esempio:

  1. a) “contratti di prossimità” ai sensi dell’art. 8 del D.L. n. 138/2011: eventuali contratti

sottoscritti da soggetti non “abilitati” non possono produrre effetti derogatori, come prevede il legislatore, “alle disposizioni di legge (…) ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”. Ne consegue che il personale ispettivo, in sede di accertamento, dovrà considerare come del tutto inefficaci detti contratti, adottando i conseguenti provvedimenti (recuperi contributivi, diffide accertative ecc.);

  1. b) l’applicazione di contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale è indispensabile per il godimento di “benefici normativi e contributivi”, così come stabilito dall’art. 1, comma 1175 (ebbene sì c’è un articolo di legge che ha raggiunto -e superato – questo numero incredibile di commi! -ndr), L. n. 296/2006;

questo comma è importantissimo  in quanto tratta del cosiddetto Durc, cioè del Documento Unico di Regolarità Contributiva, indispensabile -a decorrere dal 1° luglio 2007 per usufruire -da parte dei datori di lavoro- dei “benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e di legislazione sociale”;

questa norma dispone esplicitamente che “fermi restando gli altri obblighi di legge, ai fini della fruizione delle agevolazioni in trattazione i datori di lavoro sono tenuti al rispetto “degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”;

  1. c) il contratto collettivo sottoscritto dalle organizzazioni dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale rappresenta il parametro ai fini del calcolo della contribuzione dovuta, indipendentemente dal CCNL applicato ai fini retributivi, secondo quanto prevede l’art. 1, comma 1, del D.L. n. 338/1989 unitamente all’art. 2, comma 25, della L. n. 549/1995″.

 

 

Associazioni imprenditoriali e sindacati autonomi:quando, invano, hanno cominciato a “cantar vittoria”.

 

Il “segnale”(?) –secondo queste organizzazioni- è stato dato quando scompare – nell’agosto del 2018-  dal sito dell’Ispettorato nazionale del lavoro una nota relativa all’”Applicazione Ccnl e tutela dei lavoratori”.

 

Questa nota dava conto del fatto che “ l’azione di contrasto al fenomeno del dumping contrattuale iniziata a gennaio 2018 è in corso su tutto il territorio nazionale, in particolare nel settore del terziario (circ. n. 3/2018), nel quale si riscontrano violazioni di carattere contributivo o legate alla fruizione di istituti di flessibilità in assenza delle condizioni di legge.

L’azione si concentra nei confronti delle imprese che non applicano i contratti “leader” sottoscritti da CGIL, CISL e UIL ma i contratti stipulati da OO.SS. che, nel settore, risultano comparativamente meno rappresentative (CISAL, CONFSAL e altre sigle minoritarie).

Fermo restando il principio di libertà sindacale, infatti, la fruizione di benefici, così come il ricorso a forme contrattuali flessibili, è ammesso a condizione che si applichino i contratti “leader” del settore, contratti che vanno comunque sempre utilizzati per l’individuazione degli imponibili contributivi. Le imprese che non applicano tali CCNL potranno pertanto rispondere di sanzioni amministrative, omissioni contributive e trasformazione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro flessibili. Anche gli eventuali soggetti committenti risponderanno in solido con le imprese ispezionate degli effetti delle violazioni accertate”.

 

La “scomparsa” di questa nota fu vista come una specie di “libera tutti” da parte delle organizzazioni autonome”.

Un esempio: il 27 agosto, con un proprio comunicato, Conflavoro PMI afferma che viene riconosciuta la piena legittimità dei contratti collettivi di Conflavoro Pmi. “Gli attacchi degli ultimi mesi da parte dell’ispettorato del lavoro sono assolutamente ingiustificati e le nostre imprese e i loro lavoratori possono finalmente tranquillizzarsi”; è quanto afferma Roberto Capobianco, presidente dell’associazione delle piccole e medie imprese Conflavoro Pmi.

 

 

(1) Si vedano a questo proposito i due articoli “2014-2015: due anni di sentenze che “sbaragliano” -in sede legale- i “contratti pirata” “, in questo sito, numeri 42 e 43, estate ed ottobre novembre 2018.

 

 

 

 

 

 

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