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 No, se così dispone il contratto individuale.

Lo afferma una sentenza di Cassazione. Sempre più necessario un intervento legislativo.

di Antonio Vargiu

In un periodo in cui forse si sta vedendo una luce in fondo al tunnel, si sta riaprendo la discussione sul rapporto tra vita e lavoro e su una spinta alla produttività sempre più esasperata destinata a gravare soprattutto sulla parte più debole, i lavoratori dipendenti.

Se queste considerazioni le focalizziamo sul settore del commercio, ecco allora che, presto o tardi, vedremo riaprirsi il dibattito sul lavoro domenicale e, soprattutto, su quello nelle festività, religiose o civili che siano.

Un’occasione per discutere di festività viene data da una recente sentenza di Cassazione: si tratta dell’ordinanza del 31 marzo 2021 n. 8958, quindi di pochi mesi fa.

 

I timori stanno diventando realtà.

 

In effetti dobbiamo riprendere il discorso da dove l’avevamo lasciato qualche anno fa.

Facciamo riferimento all’articolo “Speciale giorni festivi: il diritto di non lavorare”, apparso sul numero 41 del maggio-giugno 2018.

Già in quell’occasione, in cui sottolineavamo un orientamento positivo dei tribunali rispetto al diritto dei lavoratori di rifiutarsi di lavorare nelle festività, mettevamo però tutti in guardia rispetto all’insufficienza di questo orientamento.

 

Lo schema che avevamo tratteggiato tre anni fa.

 

Avevamo fatto il punto della situazione analizzando quanto veniva fuori da varie sentenze e dalle loro motivazioni.

In sintesi 

  1. ai lavoratori veniva riconosciuto il “diritto soggettivo” di astenersi dal lavoro in occasione delle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili o religiose (Cass. n.4435/2004, Cass. n.9176/1997, Cass. n.5712/1986);
  2. quindi la possibilità di svolgere attività lavorative nelle festività infrasettimanali non significava che la trasformazione da giornata festiva a lavorativa poteva avvenire per libera scelta del datore di lavoro, in quanto la rinuncia al riposo non era rimessa né alla volontà esclusiva del datore di lavoro né a quella del lavoratore, ma al loro accordo;
  3. la normativa sulle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili o religiose (legge 260/1949) è successiva alla normativa sul riposo domenicale e settimanale (legge 370/1934) e non ne prevede una equiparazione; una successiva norma (legge 520/1952) ha stabilito che solo per “il personale di qualsiasi categoria alle dipendenze delle istituzioni sanitarie pubbliche e private” sussiste l’obbligo della prestazione lavorativa durante le festività, su ordine datoriale in presenza di “esigenze di servizio”;
  4. non esiste, quindi, un obbligo generale a carico dei lavoratori di effettuare la prestazione nei giorni destinati ex legealla celebrazione di ricorrenze civili o religiose;
  5. sono nulle le clausole della contrattazione collettiva che prevedono tale obbligo, in quanto incidenti sul diritto soggettivo dei lavoratori di astenersi dal lavoro (cui si può derogare solo per il lavoro domenicale); in nessun caso, quindi, una norma di un contratto collettivo può comportare il venir meno di un diritto già acquisito dal singolo lavoratore, non trattandosi di un diritto disponibile per le organizzazioni sindacali (Cass.n. 9176/1997 cit.);
  6. nulla aggiunge il D.Lgs 8 aprile 2003, n.66 (in attuazione della Direttiva 93/104/CE e della direttiva 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro”), che parla solo del riposo e della possibilità che possa essere usufruito in un giorno diverso dalla domenica.

Una sentenza avversa dal Tribunale di Milano

 

Tutto bene dunque? No di certo! Lo avevamo bene messo in evidenza commentando una sentenza del Tribunale di Milano, la n. 396 del 13 marzo 2018, che sostanzialmente si insinua tra le pieghe di queste sacrosante affermazioni.

Ne diamo conto in maniera un po’ più estesa perché sostanzialmente è la base giuridica su cui fa leva l’ultima sentenza di Cassazione.

 

Milano parte dalle seguenti premesse, derivanti dall’analisi delle carte del processo:

  1. gli orari, richiamati nella lettera di assunzione, prevedevano espressamente la prestazione lavorativa nelle festività infrasettimanali;
  2. successivamente “le previsioni della lettera di assunzione suddetta sono state espressamente richiamate nel verbale di accordo sottoscritto dalle parti in sede protetta in data 30-6-11: in tale verbale e’ stata concordata l’assunzione del ricorrente, dal 1-8-11, presso la filiale di Cormano ”alle condizioni di cui alla lettera di assunzione che si allega ed e’ parte integrante del presente accordo”.

 

Continua il Tribunale di Milano:

“Il ricorrente (cioè il lavoratore- ndr) ritiene che la previsione della lettera di assunzione e la relativa validazione in sede protetta non rilevino, in quanto il diritto al riposo nelle festivita e’ diritto inderogabile e solo parzialmente disponibile da parte del lavoratore, che puo’ acconsentire a rinunciarvi solo di volta in volta, in quanto il consenso eventualmente reso una volta per sempre costituirebbe accordo pro futuro, come tale nullo”.

Ma la tesi è respinta:

  • è vero che la Cassazione ha piu’ volte ribadito la sussistenza di un vero e proprio diritto del lavoratore ad astenersi dal lavoro in occasione delle festivita’ infrasettimanali;
  • è vero che la sentenza della Cassazione n. 16592/2015 non precisa se l’accordo tra datore di datore e lavoratore, a cui solo e’ rimessa la rinunciabilita’ del riposo nelle festivita’ infrasettimanali, possa essere unico o debba essere dato volta per volta;
  • ma -in mancanza di questa precisazione e valutando il caso concreto- il Tribunale rimarca che “la rinuncia a tale diritto, derivante dalla sottoscrizione della lettera di assunzione e dalla sottoscrizione del verbale di accordo che tale lettera richiama, non riguarda un diritto futuro ed eventuale e non e’ priva di oggetto, in quanto e’ riferita ad una serie di giorni dell’anno che, come riconosce lo stesso ricorso, sono specificamente individuati dalla legge n. 260/1949”.

Per tutte le considerazioni che precedono la lettera di assunzione ed il verbale di accordo sottoscritto dalle parti hanno -per il giudice- un “evidente valore negoziale” e sono configurabili come vera e propria rinuncia ai sensi dell’art. 2113 c.c.: infatti esse contengono il riferimento a diritti e ragioni concretamente determinati.

L’ultima sentenza della Cassazione: l’ordinanza del 31 marzo 2021 n. 8958.

 

I fatti

In data 30/01/2017 con la sentenza n. 3 la Corte di appello di Trento confermava la pronuncia del Tribunale di Rovereto, accogliendo la domanda di tre lavoratrici
L.S., G.M., M.S.L. nei confronti della
società A.S. s.r.l. per l’annullamento delle sanzioni disciplinari conservative
applicate per essersi astenute dal lavoro durante alcune
festività nazionali infrasettimanali (essendo fallito il confronto preventivo
effettuato tra il responsabile della filiale e le rappresentanze sindacali del
punto vendita, in ossequio all’Accordo aziendale 16.4.2013).

Le motivazioni delle lavoratrici erano state accolte dalla Corte d’appello con le seguenti “classiche” motivazioni:

  1. le clausole di disponibilità alla prestazione di lavoro nei giorni festivi e domenicali erano “indeterminate”;
  2. i lavoratori al momento della sottoscrizione di quelle clausole erano in posizione di debolezza ((ossia al momento dell’assunzione o della trasformazione
    del rapporto a tempo indeterminato);
  3. le clausole erano generiche e richiedevano un successivo accordo
    tra le parti ogni qual volta l’esigenza aziendale veniva rappresentata secondo
    criteri di correttezza e buona fede.

 

Ma la Cassazione entra sull’argomento “a gamba tesa”!

Non sono questi i ragionamenti validi, ha ragione Milano! Così replica la sentenza di Cassazione, rispondendo punto su punto:

  • non c’è niente di indeterminato nella clausola: l’oggetto è senz’altro determinabile in quanto “inequivocabilmente individuabile mediante il riferimento ai
    “giorni festivi”, e, dunque, con un esplicito rinvio alla normativa
    che individua tali giorni (legge n. 260 del 1949),
    con conseguente esclusione di una determinazione di tali festività rimessa
    all’arbitrio della parte datoriale”;
  • quanto al secondo argomento, si deve partire dalla constatazione che le festività infrasettimanali, a differenza delle ferie e del riposo settimanale, non sono tutelate dalla Costituzione (art. 36, comma 3);

invero, “il legislatore ha ritenuto di diversificare la disciplina in base alla
considerazione che le ferie ed il riposo hanno la finalità di tutelare un bene
primario della persona non suscettibile di alcun bilanciamento con altri
diritti anche costituzionalmente tutelati, ossia la finalità di reintegrare le
energie psico-fisiche del lavoratore, mentre le festività non tutelano
immediatamente il diritto alla salute, bensì, a seconda dei casi, l’esigenza di
consentire la celebrazione comunitaria di ricorrenze festive profondamente
radicate nella tradizione, non solo religiosa, ovvero legate a particolari
significati e valori civili, diritti disponibili dal lavoratore”;

per questi motivi ha meno rilevanza il fatto che il lavoratore possa trovarsi in una situazione di debolezza rispetto al suo datore di lavoro;

  • il ritenere sempre necessario un accordo sulle festività perché quanto sottoscritto poteva sempre essere rimesso in discussione “non è conforme ai principi
    affermati da questa Corte essendo pervenuta alla ricostruzione del significato
    della clausola elidendo del tutto l’elemento letterale…, trascurando la valenza dei
    riferimenti normativi esterni a cui la clausola rinviava (ossia la normativa
    dettata in materia di festività infrasettimanali, legge
    260 del 1949) ed inserendo valutazioni, alla situazione soggettiva del
    lavoratore subordinato, generiche e non attinenti allo specifico diritto
    vantato (il diritto all’astensione dall’attività lavorativa nelle festività
    infrasettimanali, diritto soggettivo rinunciabile, come questa Corte ha già
    affermato, Cass. n. 16634 del 2005 e, da
    ultimo, Cass. n. 18887 del 2019), e, infine,
    privando la clausola di qualsiasi effetto utile (in quanto l’obbligo di
    richiedere, di volta in volta, il consenso del lavoratore non differenzia,
    nella sostanza, le posizioni di coloro che abbiano pattuito la loro
    disponibilità a lavorare durante le festività infrasettimanali da coloro che non
    l’abbiano esplicitata, potendo essi sempre manifestarla).

 

Le conclusioni

Partendo da queste premesse, la Corte di legittimità arriva alle seguenti conclusioni, che danno torto alle ragioni portate dai lavoratori:

“va pertanto, enunciato il seguente principio di diritto: la rinuncia al diritto all’astensione dalla prestazione nelle giornate
festive infrasettimanali di cui all’art. 2 della legge n. 260 del 1949
può essere anche validamente inserita come clausola del contratto individuale
di lavoro;

in particolare, il giudice, esaminando gli accordi intervenuti tra
le parti in materia di festività infrasettimanali, dovrà attenersi ai seguenti
principi:

  1. il diritto del lavoratore ad astenersi dalla prestazione durante le
    festività infrasettimanali è diritto disponibile e sono validi gli accordi
    individuali, intercorsi tra lavoratore e datore di lavoro;
  2. l’oggetto di detti accordi è chiaramente determinabile mediante il ricorso al riferimento normativo esterno costituito dalla legge n. 260 del
    1949;
  3. il potere del datore di lavoro di richiedere la prestazione
    lavorativa nei giorni festivi va esercitato nel rispetto dei principi di buona
    fede e correttezza”.

 

Alcune nostre riflessioni

 

Alla fine, nonostante gli impeccabili ragionamenti giuridici, viene fuori un concetto di giustizia più di tipo formale che sostanziale.

Soprattutto in questo momento, quelli che operano in prima linea a contatto del pubblico (perché stiamo parlando di commercio) meriterebbero una maggiore considerazione.

Prendiamo atto di una certa scarsa sensibilità sociale che alberga in una parte della magistratura. Perché lo snodo è questo: non si tiene conto della estrema delicatezza che riveste la fase dell’assunzione. Perché si può teorizzare sul sacrosanto diritto individuale di rinunciare a propri “diritti disponibili”, quello che è certo è che nessun “aspirante” lavoratore negherà la propria disponibilità al lavoro nei giorni delle festività, sapendo bene che l’alternativa sarebbe la non assunzione!

Se aggiungiamo poi il fatto che -nel settore- il lavoro domenicale è ormai la norma, non c’è che constatare come la qualità della vita sociale di chi vi opera sia ormai scesa a livelli molto bassi.

Per questo riteniamo non più differibile un intervento legislativo che obblighi il settore del commercio a chiudere almeno per le festività. Pur essendo questo un traguardo minimo, dovrebbe essere sostenuto con forza dalle organizzazioni sindacali.

Del resto i grandi progetti varati negli scorsi anni da forze politiche che si affacciavano al governo o per la prima volta o con una nuova “riverniciatura” giacciono alle Camere sotto cumuli di polvere, viste le resistenze dei maggiori operatori del settore.

Un progetto più mirato, però, potrebbe avere più possibilità di successo ed aprire uno spiraglio per un po’ più di socialità per i lavoratori.

 

 

 

 

 

 

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