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di Antonio Vargiu

 

La questione portata all’attenzione della Corte Europea per i diritti dell’uomo per violazione dell’art.8 della Convenzione europea.

 

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Alcuni dei lavoratori licenziati si rivolgono, allora, alla Corte Europea, invocando una violazione dell’art.8. della Convenzione per la protezione dei diritti individuali riguardanti l’elaborazione automatica dei dati personali (Convention for the Protection of Individuals with regard to Automatic Processing of Personal Data).

 

L’articolo è costituito da due commi: il primo enuncia il contenuto della tutela, “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e famigliare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”, mentre il secondo parla delle restrizioni che ogni Stato membro è autorizzato a porre rispetto al diritto sopra definito affermando che le restrizioni “a) devono essere definite per legge; b) devono essere legittimate da almeno una delle finalità elencate dalla norma; c) devono essere necessarie “in una società democratica””.

La Corte Europea si pronuncia due volte sulla questione, una prima volta con una sezione ristretta del tribunale, la seconda volta in composizione allargata, la Grand Chamber.

La prima pronuncia

 

Il 9 gennaio 2018 la sezione V della Corte emette una prima sentenza che condanna la Spagna per la violazione dell’art.8 della Convenzione europea.

Sembra strano che venga sanzionato uno Stato per una azione che è stata totalmente gestita da un imprenditore privato.

Ma così non è perché, come spiega il tribunale, l’articolo 8 impone allo Stato non solo l’obbligo di impedire ogni arbitraria intromissione nella vita privata dei lavoratori da parte della pubblica autorità, “sfera privata” che, come viene bene messo in evidenza, continua a sussistere anche sui luoghi di lavoro, ma anche l’impegno in positivo di adottare le misure necessarie a garantirne il rispetto.

Nel concreto la Corte Europea ha rilevato che l’attività di “sorveglianza occulta” ha colpito in maniera indistinta le lavoratrici e i lavoratori impiegati in quella unità produttiva, mettendo in atto, quindi, una misura di controllo che ha colpito in maniera totale e, quindi, sproporzionata rispetto al bene legittimo da tutelare, gli addetti del negozio.

La colpa dello Stato consiste nella omessa sanzione di questa chiara sproporzione tra lo scopo perseguito e gli strumenti usati.

A questo punto lo Stato spagnolo decide di chiedere un’ulteriore pronuncia della Corte, riunita questa volta in “Grand Chamber”.

 

La sentenza della Grand Chamber

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Qui arriva la sorpresa, perché la Grand Chamber, con la sentenza del 17 ottobre 2019, “assolve” lo Stato spagnolo, capovolgendo gli orientamenti in merito espressi a più riprese dalla V Sezione della Corte.

Per giungere a questa conclusione la “Grande Camera” torna ad analizzare in maniera molto accurata il caso concreto da cui è scaturita tutta la vicenda giudiziaria.

Viene osservato che, in realtà, le telecamere non abbiano “puntato” l’intero negozio, ma solo le aree vicine alle casse; le aree inquadrate, per definizione, erano aperte al pubblico e, in questo modo, veniva controllata anche la clientela.

Da qui un primo commento da parte della Corte: i lavoratori dovevano aspettarsi una minore tutela della propria privacy in queste aree rispetto ad altre di natura più strettamente privata, come “…servizi igienici o guardaroba, in cui una protezione accresciuta o persino un divieto assoluto di videosorveglianza sono giustificati. Rimane alta nelle aree di lavoro chiuse, come gli uffici. È manifestamente inferiore in luoghi che sono visibili o accessibili ai colleghi o, come nel caso di specie, al pubblico in generale”).

Inoltre la videosorveglianza è durata solo dieci giorni ed è terminata nel momento in cui le immagini hanno consentito di individuare i responsabili dei furti.

Quindi nel caso in esame – questa è la conclusione cui arriva la Corte-  l’intrusione delle telecamere non ha superato “un certo livello”.

“Con riferimento alla preliminare informazione dei dipendenti, pacificamente avvenuta in modo generico e parziale, la Grand Chamber chiarisce che la stessa rappresenta solo uno dei criteri (pertanto sintomatici e non tassativi) da considerare per vagliare la proporzionalità delle misure di controllo adottate dal datore di lavoro e che, nel caso di specie, la violazione da parte del datore del dovere di informazione preventiva, esplicita, precisa e inequivocabile di cui alla Sezione 5 della Legge spagnola sulla protezione dei dati personali non è in grado di inficiare la proporzionalità della misura essendo rispettati gli altri criteri (2)”.

Da qui la conclusione:

mentre, in generale, il minimo sospetto di appropriazione indebita o qualsiasi altro illecito da parte dei dipendenti non può giustificare l’installazione di dispositivi di videosorveglianza occulta da parte del datore di lavoro, l’esistenza del ragionevole sospetto che sia stato commesso un grave reato e l’entità dei danni accertati nel caso di specie pare rappresentare un’adeguata giustificazione.

Ciò è tanto più vero in una situazione in cui il buon funzionamento di un’azienda è messo in pericolo non solo dal sospetto comportamento scorretto di un singolo dipendente, ma piuttosto dal sospetto di un’azione concertata da parte di più dipendenti, poiché ciò crea un’atmosfera generale di sfiducia nel luogo di lavoro.

In tali circostanze, viste le significative garanzie fornite dal quadro giuridico spagnolo …e l’importanza delle ragioni che giustificano la videosorveglianza, come rilevato dai tribunali nazionali, la Corte conclude che le autorità nazionali non sono venute meno ai loro obblighi positivi ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione. Di conseguenza, non vi è stata violazione di tale disposizione (1)”.

 

Vogliamo qui sottolineare un fatto: la Corte ha evitato il giudizio sulla legislazione spagnola relativa al diritto alla riservatezza dei lavoratori, preferendo piuttosto concentrarsi sul fatto specifico. Assolvendo la condotta tenuta dal datore di lavoro, ha conseguentemente assolto anche lo Stato spagnolo.

 

 

Conclusioni: perché non è possibile strumentalizzare la sentenza rispetto alla legislazione italiana.

 

Con una certa delusione abbiamo assistito in Italia a commenti assolutamente superficiali e mancanti di una seria analisi giuridica della sentenza della Corte Europea, anzi abbiamo assistito ad una “corsa” a trasporla immediatamente nella realtà giuridica italiana, con conclusioni del tutto fuorvianti.

Basti per tutti l’articolo comparso il 21/10/19 (2) sulla rubrica del Il Sole 24 ore on line Diritto24, il cui titolo è tutto un programma “Licenziato per furto: via libera della CEDU alle telecamere nascoste!”, mentre è assolutamente chiarificatrice delle intenzioni degli scriventi la frase:”…Vedremo, ora, se questa sentenza riuscirà ad avere effetti dirompenti anche nei Tribunali italiani e favorire un’interpretazione più “aperta” e innovativa dell’Art.4 dello Statuto dei Lavoratori”.

Ovviamente l’interpretazione più innovativa dovrebbe essere quella mirata a togliere ulteriori diritti ai lavoratori, andando oltre anche alla modifica peggiorativa dell’art. 4 dello Statuto già operata con lo Jobs Act!

 

Li vogliamo sin da subito rassicurare: niente di tutto questo potrà avvenire in Italia. Spieghiamo subito perché.

 

Le tutele dell’art.4 dello Statuto dei Lavoratori

 STATUTO LAVORATORI, DA ASPETTATIVE A REINTEGRO

 

Innanzitutto quello che è avvenuto in Spagna non sarebbe potuto accadere in Italia e questo per un semplice motivo: l’art.4 dello Statuto dei lavoratori prevede che, per installare una telecamera che riprenda -in tutto o in parte- l’attività dei lavoratori, non basta dare un’adeguata informazione agli interessati.

E’ necessario, infatti, che il datore di lavoro tenti -in via preliminare- di raggiungere un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali e con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Solo a conclusione di questa prima fase -in caso di esito negativo delle trattative- ci si può rivolgere all’Ispettorato nazionale del lavoro per ottenere la relativa autorizzazione.

Il datore di lavoro non può, quindi, di sua iniziativa, “piazzare” telecamere nascoste nei luoghi di lavoro. Sottolineiamo questo aspetto perché abbiamo visto -su Internet- siti di “fornitori” di telecamere (da nascondere- sic!) che -inopinatamente-“proclamavano” una inesistente “libertà di spiare”.

 

La Cassazione penale

A questo proposito vogliamo ricordare la sentenza n. 4331 del 30 gennaio 2014 con la quale la Cassazione penale ha affermato che l’installazione di telecamere all’interno dell’azienda e puntate direttamente sui dipendenti, effettuata senza attendere l’autorizzazione della DTL o l’accordo con le rappresentanze sindacali, comporta la responsabilità penale del datore di lavoro, anche se le stesse risultano spente.

La Suprema Corte, evidenzia come vada prioritariamente tutelato il bene giuridico della riservatezza del lavoratore e, di conseguenza, il reato di pericolo a carico del datore può configurarsi con la mera installazione non autorizzata dell’impianto di videoripresa, anche se la telecamera risulta spenta sino al benestare dell’ispettorato del lavoro.

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Un ulteriore riscontro in una seria analisi giuridica della sentenza della Corte Europea.

 

Lo troviamo in un commento alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, un vero e proprio “saggio” a firma di Antonella Ciriello, Giudice della Cassazione sez.lavoro, e di Federica Ariante, Avvocata (3), laddove le autrici, con un linguaggio molto tecnico e, per così dire, soft, fanno intendere chiaramente come non sia possibile trasporre meccanicamente la sentenza in oggetto nella realtà giuridica italiana: infatti

“…gli interpreti si interrogano, leggendo la sentenza in commento, su quali possano essere le ricadute interpretative nel diritto interno, tenendo conto del rilievo che assumono, per valutare le conseguenze delle valutazioni svolte dai giudici di Strasburgo, le specificità derivanti dal quadro normativo del paese di provenienza e considerando come potrebbero essere presenti in diverse realtà nazionali tutele differenziate e, sotto certi aspetti, già sufficientemente rispettose dei diritti dell’uomo tutelati dalla Convenzione.

Per esempio, il nostro ordinamento, ove in tema di controlli la norma fondamentale è costituita dall’art. 4 dello Stat. Lav., così come riscritto nel 2015, è dotato di una disciplina rispettosa della vita privata e della riservatezza dei lavoratori, non solo per il rinvio espresso al cd. codice della privacy (d. lgs. n. 196/2003) ma soprattutto perché, come si vedrà, condiziona l’utilizzabilità dei dati raccolti, a certe condizioni, alla previa “adeguata” informazione dei dipendenti; tale profilo …influisce fortemente sulla trasposizione degli assesti interpretativi della Corte EDU, tanto che l’interprete si può legittimamente domandare se possa proprio configurarsi, nel nostro ordinamento, un giudizio di bilanciamento analogo a quello formulato nel caso de quo dalla Corte EDU e con quali risultati…(la sottolineatura è nostra -nda)”.

 

Videosorveglianza: la risposta contrattuale delle Federazioni sindacali del Terziario (Filcams Cgil Fisascat Cisl e Uiltucs).  

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Riteniamo che assuma un grande rilievo la risposta data su questa questione dalle  Federazioni sindacali del Terziario.

L’art.4 dello Statuto può essere sicuramente considerato come una norma di sostegno alla contrattazione in materia, che, in effetti, si sta considerevolmente sviluppando, abbracciando settori che vanno dal commercio alla ristorazione al terziario avanzato ecc.

L’impostazione sindacale è abbastanza semplice ed è basata su questi punti principali:

  1. a) definizione di un “accordo quadro” nazionale in cui vengono affermati
  • i principi di equilibrio tra esigenze di tutela del patrimonio aziendale e quelle di salvaguardia del diritto alla riservatezza dei lavoratori
  • i luoghi in cui non possono essere inserite le telecamere (bagni, luoghi di riunione dei lavoratori, mense ecc.)
  • la durata di conservazione delle immagini, prima di essere cancellate per sovrapposizione (da tre a sette giorni, a seconda dei settori)
  • l’impossibilità di utilizzare le “apparecchiature” ai fini di un controllo a distanza dell’attività lavorativa
  • impegno dell’azienda a non utilizzare le immagini a fini disciplinari (come invece sarebbe possibile a seguito della modifica dell’articolo operato dallo jobs act)
  • l’eccezione: previa “denuncia formale”, è consentito alle forze di polizia giudiziaria decidere criteri e metodi di gestione delle immagini.

 

  1. b) definizione di uno schema di accordo territoriale, che viene sottoscritto solo dopo una verifica tra le parti sul numero e sul posizionamento delle telecamere e sulla coerenza complessiva rispetto all’accordo quadro nazionale.

 

Naturalmente l’accordo si intende “perfezionato”, dal punto di vista giuridico, solo con la sottoscrizione anche di quello territoriale.

In questo modo si risolve alla radice ogni possibile contenzioso. In conclusione in Italia non possono essere “controllati a distanza” i lavoratori mediante le telecamere, né basta una semplice informativa per un loro utilizzo sproporzionato rispetto al bene aziendale che si vuole tutelare.

Nei casi, invece, di un serio e fondato sospetto di ricorrenti furti non può essere il singolo privato a dover indagare e a prendere misure unilaterali, ma la magistratura e la polizia giudiziaria (con le ovvie garanzie del caso).

 

Note:

  1.   Videosorveglianza “occulta” sul luogo di lavoro: il caso López Ribalda e altri c. Spagna e la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Antonella Ciriello, Federica Ariante, LavoroDirittiEuropa, n.3/2019.
  2.  Licenziato per furto: via libera della CEDU alle telecamere nascoste!, 21/10/19, Olimpio Stucchi e Marilena Cartabiai.
  3.  Videosorveglianza “occulta” sul luogo di lavoro: il caso López Ribalda e altri c. Spagna e la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Antonella Ciriello, Federica Ariante, LavoroDirittiEuropa, n.3/2019.

 

 

 

 

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