2^ parte: l’intervento della magistratura ha già eliminato i molti veleni del “nuovo” art.18.
Se avete avuto la pazienza di seguire le trasformazioni, o, per meglio dire, le manomissioni dell’art.18, siete allora in grado di cogliere in pieno queste nostre prime considerazioni.
Non vi è dubbio alcuno, e questo viene confermato anche da coloro che sono stati molto vicini al legislatore in quegli anni, che tutte queste norme -soprattutto quelle del 2015 -lo jobs act-, pur complesse, erano ispirate ad un semplice criterio.
Ce lo spiega Giovanni Piglialarmi sul Bollettino Adapt del 4 marzo 2024 (1): “Il Jobs Act così come lo abbiamo conosciuto nel 2015 non esiste più. L’obiettivo della
riforma – contenuta nella lettera della legge-delega n. 183 del 2014 – era quello di incrementare l’occupazione facendo leva su due importanti poli: da un lato, il potenziamento e il rafforzamento dell’azione dei servizi pubblici nella gestione delle politiche attive (art. 1, commi 3 e 4); dall’altro, rivedere il sistema sanzionatorio del licenziamento (art. 1, comma 7, lett. c), con l’obiettivo di “superare” l’art. 18 St. Lav. …In questo senso, il legislatore delegato ha adottato il d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150 allo scopo di riordinare la normativa in materia di servizi per il lavoro e le politiche attive e il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 allo scopo di ripensare le tutele a fronte dei licenziamenti dichiarati illegittimi.
Lasciamo ad altri le valutazioni sulla capacità di questa riforma di aver raggiunto o meno tali scopi, consapevoli del fatto che ogni tentativo in tal senso è piuttosto arduo posto che nel nostro Paese manca una robusta cultura del monitoraggio e della valutazione del reale funzionamento delle leggi di riforma del mercato del lavoro (T. Treu, Dal pacchetto Treu alla legge Biagi. Intervista a Tiziano Treu, in M. Tiraboschi (a cura di), Venti anni di Legge Biagi, Adapt University Press, 2023, p. 3”).
In parole povere questa “riforma” prevedeva licenziamenti più facili a fronte di “meravigliose” capacità (pubbliche? private?) di ricollocare rapidamente coloro che avrebbero perso così brutalmente il proprio posto di lavoro.
Come sindacalisti, in virtù anche della nostra esperienza, possiamo tranquillamente dire che gli “obiettivi riformatori” non sono stati assolutamente raggiunti e che la manomissione dell’art.18 ha solo aumentato l’arbitrarietà dei licenziamenti e l’insicurezza dei lavoratori.
L’intervento della magistratura
Fortunatamente abbiamo potuto registrare, su questo terreno un intervento importante, diremmo quasi “provvidenziale”, della magistratura nelle sue più alte espressioni istituzionali, che hanno prodotto una forte virata nell’interpretazione delle norme sui licenziamenti, privando il “nuovo” art.18 di gran parte del suo veleno e della sua funzione per molti aspetti intimidatoria nei confronti dei lavoratori (2).
La sede della Corte Costituzionale
Le sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020
Un primo colpo alla filosofia su cui poggiava la stessa disciplina del c.d. contratto “a tutele crescenti” – il cuore del jobs act – lo ha subito inferto la Corte Costituzionale con la sentenza n. 8 novembre 2018, n. 194, con cui è stata demolita la disposizione che calibrava in modo uniforme, rigido ed automatico il calcolo dell’indennità prevista per il licenziamento ingiustificato (carente di giusta causa, giustificato motivo soggettivo o oggettivo) in «una mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio», all’unico ed esclusivo scopo di far conoscere per legge ed in anticipo al datore di lavoro il costo del proprio atto illegittimo, senza alcuna considerazione della congruità del risarcimento rispetto al caso concreto e senza che si desse nessun rilievo alle variabili dipendenti dalla situazione di chi l’ingiustizia dell’atto l’aveva invece subita.
Si trattava di una regolamentazione dichiaratamente squilibrata ed inidonea a realizzare un ragionevole contemperamento degli interessi in conflitto.
Per questo è stata dichiarata incostituzionale e quindi abrogata la norma prevista dall’ l’art. 3, c. 1, d.lgs. 23/2015 nella parte in cui fissa il sistema di calcolo dell’indennità per il licenziamento ingiustificato (4). È chiaro che la decisione ha avuto un importante impatto di sistema sull’intero impianto del d.lgs. 23/2015.
La stessa pronuncia è stata poi replicata con la sentenza della Corte cost. n. 150 del 2020 in relazione alla determinazione dell’indennità risarcitoria per i vizi formali (e procedurali) parimenti imperniata sulla sola anzianità di servizio.
Ma il 2024 si rileva ancora di più come un anno cruciale: ben tre sentenze della Corte Costituzionale.
Tutte sentenze -precisiamo- che vanno ad indebolire fortemente il “nuovo” art.18 dello Statuto.
La sentenza n. 22 del 23 gennaio 2024: l’avverbio “espressamente” è incostituzionale!
Con questa sentenza la Corte costituzionale ha sancito l’illegittimità dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. 23/2015 (cosiddetto “Jobs Act”) con riferimento al termine «espressamente» (5).
Cerchiamo di spiegare la cosa in termini i più chiari possibili. Stiamo parlando della limitazione dell’applicabilità della tutela reintegratoria ai lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti.
Il motivo? Nella delega affidata dal legislatore al governo non si faceva riferimento ad ipotesi di nullità espresse o non espresse, quindi il d.lgs. 23/2015 ha violato il criterio di delega fissato dall’art. 1, comma 7, lett. c della legge n. 183/2014 (6), in contrasto con quanto disposto dall’art.76 della Carta Costituzionale.
Quindi vanno allargate le maglie della reintegra anche ad altre ipotesi di nullità, seppure non previste espressamente.
La sentenza n. 128 del 16.07.2024: reintegra per insussistenza del fatto.
Qui nel mirino finisce il “licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Siamo nel punto B del nostro schema, cioè nella casistica che non prevede la reintegra sul posto del lavoro, anche se poi si dimostri insussistente il fatto materiale posto a fondamento del licenziamento.
La Corte Costituzionale, a questo proposito, mette in rilievo che il fatto materiale deve esistere per giustificare il licenziamento da parte del datore di lavoro.
Del resto non ammettendo la reintegra verrebbe a crearsi un “dislivello” di tutela rispetto all’ipotesi del “licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo”.
Difatti, mentre ad esempio in caso di una insussistenza del fatto posto alla base di un licenziamento disciplinare la sanzione prevede la reintegra, il “nuovo” articolo 18 non la prevede in caso di una insussistenza del fatto che ha determinato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Questo, ovviamente, consentirebbe al datore di lavoro di scegliere in maniera arbitraria di qualificare un licenziamento come licenziamento per giustificato motivo oggettivo e non come, ad esempio, licenziamento disciplinare, questo all’ovvio scopo di evitare il rischio di essere costretto ad applicare una tutela reintegratoria e non unicamente risarcitoria.
La sentenza n.129/24:il licenziamento disciplinare e la reintegra.
Interpretazione inclusiva dell’art. 3, comma 2, decreto legislativo 23/2015.
Con questa sentenza la Corte Costituzionale opera una “interpretazione inclusiva” di questo articolo 3.
In parole povere, la norma, se fosse interpretata in senso letterale, ammetterebbe la reintegrazione del lavoratore solo quando il fatto contestato è del tutto inesistente. Ma, se si verifica una condotta del lavoratore punita sì dal ccnl applicato, ma solo con una sanzione “conservativa”, che non prevede cioè il licenziamento, il lavoratore ha diritto alla reintegra.
In altre parole, la Corte Costituzionale ha ritenuto che se il ccnl applicabile prevede per una determinata inadempienza solo misure sanzionatorie di non grave entità, ciò significa che tale condotta, pur essendosi formalmente verificata, è considerata dalle parti sociali incapace di compromettere il rapporto fiduciario in maniera tale da giustificare il licenziamento. Di conseguenza, anche in presenza di un fatto “materialmente” accertato ma non così grave – perché contrattualmente sanzionabile in misura conservativa – il giudice deve poter disporre la reintegrazione del lavoratore, equiparando questa ipotesi a quella in cui il fatto contestato non si è affatto verificato.
Questa soluzione si fonda su alcuni principi costituzionali fondamentali:
- Tutela del lavoro e continuità del rapporto: L’interpretazione inclusiva mira a evitare che un lavoratore venga espulso dal posto di lavoro per inadempienze che le parti sociali hanno ritenuto, attraverso il CCNL, non sufficienti a compromettere in maniera irreversibile il rapporto fiduciario tra datore e dipendente.
- Principio di proporzionalità (art. 39 Cost.): Il giudizio di proporzionalità, tradizionalmente applicato in ambito disciplinare, non deve essere escluso a priori. La Corte ha evidenziato che, se un ccnl prevede una sanzione conservativa per una determinata condotta, questo indica che le parti sociali hanno ritenuto la condotta di non grave rilevanza disciplinare, motivo per cui il licenziamento – essendo una misura estrema – non sarebbe proporzionato.
- Interpretazione adeguata: Seguendo il principio per cui «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali» (cfr. sentenza n. 42/2017), la Consulta ha adottato una lettura che armonizza la norma con i principi costituzionali, evitando che una rigidità formale pregiudichi il diritto del lavoratore alla tutela del proprio rapporto di lavoro.
Alcune brevi considerazioni finali
Torniamo a quanto affermato nella prima parte del nostro articolo. Possiamo ben dire che l’art.18 dello Statuto, così come “manomesso” nel suo spirito originario dal Job Act di Renzi, non esiste più.
In altre parole non si può più realizzare l’automatismo tra lettera di licenziamento e impossibilità di tornare al proprio lavoro. L’importante intervento della magistratura, ad ogni livello e fino alla Corte Costituzionale, ha fatto sì che non ritornasse sui luoghi di lavoro l’arbitrarietà “datoriale” nel decidere tra chi poteva lavorare e chi no.
Soprattutto è stato radicalmente messo in discussione il criterio per il quale il pagamento di una cifra -neppure troppo rilevante- potesse decidere il destino di una persona.
Alla luce di questi dati di fatto possiamo dare un giudizio più compiuto sull’iniziativa referendaria portata avanti su questo punto dalla Cgil.
Innanzitutto le cancellazioni proposte non fanno tornare all’art.18 come era nella sua formulazione originale, bensì alla cosiddetta “riforma Fornero”, che abbiamo già illustrato nel nostro articolo.
Inoltre, e può sembrare un paradosso, la Corte Costituzionale, nel pronunciarsi sull’ammissibilità del referendum, sottolinea la «circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità» del licenziamento, perché per alcune di queste (e in particolare nel caso del licenziamento intimato al lavoratore assente per malattia o infortunio, oppure intimato per disabilità fisica o psichica a un lavoratore che non versava in realtà in tale condizione) «si avrebbe, invece, un arretramento di tutela».
Questo, comunque, conclude la Corte non inficia la chiarezza, l’omogeneità e l’univocità della richiesta di referendum, il cui esito positivo avrebbe il merito di superare la distinzione di tutele tra lavoratori assunti primo o dopo il 7 marzo 2015 (7).
Ma la nostra domanda è questa: se il “nuovo” art.18 dello Statuto dei lavoratori è stato fortemente ridimensionato nella parte in cui si tornava a dare un peso sproporzionato ai datori di lavoro nel disporre dei destini delle persone, se dar vita a licenziamenti illegittimi costa molto di più in termini economici e non dà certezze sul raggiungimento del fine padronale di espellere comunque i singoli lavoratori presi di mira, vale la pena di correre il rischio del referendum?
Se noi guardiamo agli esiti di molti referendum, vediamo che per la massima parte si concludono senza il raggiungimento del quorum necessario per la loro validità (metà più uno degli aventi diritto). Il governo certamente non farà nulla per arrivare ad un esito diverso.
Il rischio è quello allora di ridare fiato alle forze conservatrici e, perché non dirlo, anche reazionarie, che diranno che il referendum è fallito (mancanza del quorum) anche se i voti espressi saranno in maggioranza quelli favorevoli all’abolizione della norma.
Ma oramai la macchina è stata messa in moto e dopo il 9 giugno ne vedremo gli esiti.
NOTE
- Fine dell’articolo 18? Anatomia di una riforma chiamata Jobs Act, Giovanni Piglialarmi, Bollettino Adapt 9, 4 marzo 2024.
- Ce lo spiega Roberto Riverso, consigliere di Corte di Cassazione, sul sito Questione giustizia, 10-9-24.
- Per contrasto con gli artt.3, 4, c. 1 e 35, c. 1, Cost., nonché con gli artt. 76 e 117, c. 1, Cost. in relazione all’art. 24 della Carta Sociale Europea (CSE). Tanto per capire l’art.3 della Costituzione parla di rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono ai lavoratori l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica economica e sociale del paese, l’art.4 riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto, l’art.35 tutela il lavoro ecc.
- 3 Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa 1. Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
- “ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”.
- “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”.
- Ci sembra utile riportare la ricostruzione “storica” delle modifiche dell’art.18 operata dalla Corte Costituzionale in occasione dell’approvazione del quesito referendario.
“4.− Sempre in via preliminare, occorre definire il contesto normativo nel quale si collocano le disposizioni oggetto del quesito referendario.
4.1.– In estrema sintesi, e per quanto qui rileva, va ricordato che per lungo tempo i rimedi apprestati dall’ordinamento a fronte della illegittimità dei licenziamenti si sono tradotti in due forme di garanzia.
La prima, per i datori “sopra-soglia” (più di quindici lavoratori, ovvero più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, occupati in ciascuna unità produttiva o comunque nell’ambito dello stesso comune, oppure più di sessanta nel complesso), rappresentata dalla cosiddetta tutela reintegratoria (o “reale”) di cui all’art. 18 statuto lavoratori, consistente nella condanna alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro precedentemente occupato, al pagamento di un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione e al versamento, per lo stesso periodo, dei contributi assistenziali e previdenziali.
La seconda, per i datori “sotto-soglia”, rappresentata, salve particolari ipotesi, dalla cosiddetta tutela indennitaria (od “obbligatoria”) di cui all’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), consistente nella condanna alla riassunzione del dipendente o, alternativamente, al pagamento in suo favore di un’indennità di importo compreso tra due mensilità e mezzo e sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, misura, questa, suscettibile di essere incrementata fino a quattordici mensilità.
4.2.– L’art. 18 statuto lavoratori è stato poi profondamente modificato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), che ha abbandonato «il criterio della tutela reintegratoria generalizzata» – applicabile, cioè, quale che fosse il vizio accertato dal giudice – «adottando invece un criterio selettivo ispirato essenzialmente alla gravità dell’illegittimità da cui è affetto il licenziamento e prevedendo plurimi e gradati regimi di tutela. Ha riservato la tutela reintegratoria alle ipotesi di maggiore gravità […]: quella “piena” in caso di licenziamento nullo o discriminatorio; quella “attenuata” in caso di licenziamento fondato su un “fatto insussistente”. In tutti gli altri casi la tutela è solo indennitaria, più o meno ampia secondo due distinte declinazioni, entrambe di tipo compensativo della perdita del posto di lavoro conseguente all’effetto risolutivo del rapporto, che comunque si produce» (sentenza n. 128 del 2024).
4.3.– È questo il contesto in cui è intervenuto il d.lgs. n. 23 del 2015, adottato nell’esercizio della delega disposta dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), diretta a «favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di “nuovi assunti”, accentuandone la flessibilità in uscita con il riconoscimento di una tutela risarcitorio-monetaria predeterminata, e quindi alleggerendo le conseguenze di un licenziamento illegittimo» (sentenza n. 129 del 2024).
A tal fine, il d.lgs. n. 23 del 2015 ha dettato una disciplina organica dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi intimati, tanto dai datori “sopra-soglia” quanto da quelli “sotto-soglia”, ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri assunti, a decorrere dal 7 marzo 2015, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Pur muovendosi nel solco della frammentazione delle tutele introdotta dalla legge n. 92 del 2012, il legislatore delegato ne ha così mutato i rispettivi confini applicativi, introducendo una normativa che, rispetto a quella di cui all’art. 18 statuto lavoratori, in via generale, ridimensiona la tutela indennitaria e limita ulteriormente quella reintegratoria, nel caso di licenziamento individuale per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, eliminandola poi del tutto nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il d.lgs. n. 23 del 2015 interviene inoltre sulla disciplina del licenziamento collettivo, sempre limitatamente ai lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015, sopprimendo la tutela reintegratoria anche nel caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, legali o previsti da accordo sindacale.
4.4.– In realtà, il complessivo arretramento delle garanzie a favore della flessibilità in uscita è stato successivamente mitigato, su specifici profili, dalle pronunce di illegittimità costituzionale che l’Ufficio centrale per il referendum ha ritenuto opportuno menzionare nel quesito referendario.
Sulla tutela indennitaria hanno inciso le sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, all’esito delle quali è venuto meno l’automatismo di calcolo dell’indennizzo previsto solo per i licenziamenti soggetti al d.lgs. n. 23 del 2015, che «è ora fissato in una forbice tra un minimo e un massimo e non è più quantificato in modo rigido unicamente secondo la progressione lineare dell’anzianità di servizio» (sentenza n. 7 del 2024).
Quanto, invece, alla tutela reintegratoria, la sentenza n. 22 del 2024, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 per eccesso di delega, limitatamente alla parola «espressamente», ha realizzato un significativo ampliamento del campo di applicazione della tutela reintegratoria “piena”: per effetto di questa pronuncia, infatti, il regime del licenziamento nullo intimato ai dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015 trova oggi applicazione sia nel caso in cui nella disposizione imperativa violata ricorra l’espressa e testuale sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, ma sia possibile rinvenire, comunque, il carattere imperativo della prescrizione per la presenza di un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.
Infine, la sentenza n. 128 del 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo in esame, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria “attenuata”, ivi riservata alle sole ipotesi di licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente, si applichi, in luogo di quella meramente indennitaria originariamente prevista, anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale rimane estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.
4.5.– Resta, comunque, che, in controtendenza rispetto al complessivo arretramento delle garanzie a favore della flessibilità in uscita, la disciplina di cui al d.lgs. n. 23 del 2015 in alcuni casi particolari comporta un ampliamento delle stesse.
Ciò si verifica nelle ipotesi del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore prima del superamento del cosiddetto periodo di comporto (art. 2110, secondo comma, codice civile, all’esito della citata sentenza n. 22 del 2024 di questa Corte) e in quelle in cui il giudice accerti che il licenziamento intimato per disabilità fisica o psichica del lavoratore è ingiustificato perché l’inidoneità allo svolgimento delle mansioni assegnategli «non [era in realtà] riconducibile ad una condizione di disabilità» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 maggio 2024, n. 14307). In questi casi, infatti, è garantita la tutela reintegratoria “piena”, anziché quella “attenuata” prevista dall’art. 18 statuto lavoratori.
Parimenti di favore è l’estensione della disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015 (art. 9, comma 2) ai licenziamenti intimati dalle cosiddette organizzazioni di tendenza, esclusi invece dal campo di applicazione dell’art. 18 statuto lavoratori…
…6.– Né l’ammissibilità della richiesta referendaria è ostacolata dalla possibilità di ritenere la normativa in esame «costituzionalmente necessari[a]» o «a contenuto costituzionalmente vincolato» (sentenza n. 16 del 1978), dal momento che l’eventuale esito positivo del referendum non determinerebbe una lacuna nella tutela del fondamentale diritto al lavoro: dall’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 deriverebbe l’applicabilità, anche ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, della disciplina dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966.
L’odierno quesito referendario, infatti, punta a rimuovere dall’ordinamento l’intero d.lgs. n. 23 del 2015, frutto di una discrezionale opzione di politica legislativa, senza che dalla vis abrogans possa scaturire una, preclusa, reviviscenza del quadro normativo preesistente: la disciplina dettata dal suddetto decreto legislativo si è affiancata a quella dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, dando così luogo a «un duplice e parallelo regime» (sentenza n. 44 del 2024).
L’effetto innovativo sulla disciplina vigente, connaturale alla abrogazione referendaria, consisterebbe quindi nella «fisiologica espansione della sfera di operatività» (sentenza n. 50 del 2000) di norme già presenti nell’ordinamento, tuttora vigenti, anche se compresse, per effetto della applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum, su un ambito di efficacia limitato ai soli licenziamenti individuali dei lavoratori già in servizio alla data del 7 marzo 2015.
7.− Il quesito referendario sottoposto al giudizio di ammissibilità non risulta nemmeno carente di una matrice razionalmente unitaria…
…Rileva, piuttosto, perché la richiesta referendaria sia ammissibile, che il quesito incorpori «l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo, cioè la puntuale ratio che lo ispira (sentenza n. 29 del 1987), nel senso che dalle norme proposte per l’abrogazione sia dato trarre con evidenza “una matrice razionalmente unitaria” (sentenze n. 16 del 1978; n. 25 del 1981), “un criterio ispiratore fondamentalmente comune” o “un comune principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale” (sentenze n. 22, n. 26, n. 28 del 1981; n. 63, n. 64, n. 65 del 1990)» (sentenza n. 47 del 1991).
Nel caso di specie, la «matrice razionalmente unitaria» che giustifica l’unicità della richiesta è ravvisabile nel profilo teleologico sotteso al quesito referendario, mirante all’abrogazione di un corpus organico di norme e funzionale alla reductio ad unum, senza più la divisione tra prima e dopo la data del 7 marzo 2015, della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, con la riespansione della disciplina pregressa, valevole per tutti i dipendenti, quale che sia la data della loro assunzione.
La circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità, perché in alcuni casi particolari si avrebbe, invece, un arretramento di tutela (come si è evidenziato al punto 4.5.), non assume una dimensione tale da inficiare la chiarezza, l’omogeneità e la stessa univocità del quesito medesimo. Questo chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 nella sua articolata formulazione.
In definitiva, i limiti costituzionali al referendum, da questo punto di vista, sono essenzialmente preordinati a evitare, da un lato, la distorsione in senso plebiscitario del precipuo strumento di democrazia diretta contemplato dalla Costituzione (sentenze n. 56 del 2022 e n. 16 del 1978) e, dall’altro, l’incisione sulla libertà del voto dell’elettore, che potrebbe maturare «convincimenti diversi» rispetto a una pluralità di questioni profondamente difformi e insuscettibili di essere ricondotte ad unità (ex plurimis, sentenza n. 12 del 2014). Tali limiti, tuttavia, non precludono l’abrogazione totale di un testo normativo che contempla soluzioni differenti (ex plurimis, sentenze n. 56 del 2002, n. 15 del 1997 e n. 35 del 1993), qualora rimanga comunque salvaguardato un nesso di coerenza tra il mezzo e il fine referendario: in tal caso non si concreta un uso artificioso del referendum abrogativo (ancora, sentenza n. 16 del 1978), tale da eccedere le previsioni dell’art. 75 Cost.
8.− In definitiva, non ostandovi alcuna ragione di ordine costituzionale, la richiesta di referendum deve essere dichiarata ammissibile”.