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Perché Quasimodo. Lo confesso subito: per me è uno dei più grandi poeti del novecento italiano ed è stato uno da cui ho appreso -in forma autodidatta- il senso e la forma dello scrivere in versi. Non è quindi casuale che il primo articolo di poesia del sito sia stato dedicato a lui.

Finora ne abbiamo parlato principalmente come “traduttore” dei lirici greci, il cui omonimo libro è tra i più celebrati della sua produzione. Riprendiamo qui l’episodio citato da Eugenio Scalfari, che alla domanda rivotagli da Quasimodo su quale considerasse il migliore suo libro gli rispose: i lirici greci, naturalmente.

“ …Vivevo a Roma, ma andavo spesso a Milano che per molto tempo è stata la mia seconda patria. Frequentavo la Casa della cultura, i dibattiti che vi si svolgevano…Spesso pranzavo lì, era frequentato da personaggi di grande interesse a cominciare da Eugenio Montale da Carlo9 Bo da Titta Madia. Quando veniva dalla Sicilia c’era pure Salvatore Quasimodo”.

“…mi piaceva molto, così lo conobbi e diventammo amici. Lui sperava da tempo d’ottenere il premio Nobel ma aveva però dei concorrenti, tra i quali ricordo Montale e Moravia…Uno di quei giorni, tra un boccone e l’altro, mi fece una strana domanda…:”Secondo te qual è il mio libro migliore?”. La domanda mi sorprese. “Perché mi chiedi questo?”, gli risposi. E lui:”Sei più giovane di me e fai un altro mestiere, ma sei un mio lettore…Ci rivedremo qui domani e mi darai la tua risposta, ci tengo molto”. Gli risposi: ”Non ho bisogno di pensarci affatto, te lo dico subito: i lirici greci da te tradotti”.

“E’ una traduzione, non un’opera mia”, ribattè Quasimodo, ma Scalfari gli replicò –alla fine convincendolo- che quella era un’opera originale:”…E’ un’opera assolutamente tua, Saffo e gli altri sono la materia prima di cui ti servi ma dalla materia prima esce un prodotto compiuto e l’autore è Quasimodo” (da Diario, d’amore, di lotta ecc. n.23, settembre 2016)”.

Non solo “lirici greci”.

Scalfari, naturalmente in maniera del tutto involontaria, in realtà si accodava a un certo numero di critici letterari e di “professionisti” della letteratura, che criticarono l’assegnazione del Nobel a Quasimodo nel 1959.

Del resto è nota la reazione piuttosto violenta (a parole) di un altro grande poeta contemporaneo, Giuseppe Ungaretti, che – noto per il suo carattere focoso- lo bollò addirittura come “un pappagallo e un pagliaccio” subito dopo la conquista del premio.

Ma agli “ambienti culturali” probabilmente non piacevano i contenuti della sua lirica: né la sua nostalgia da “emigrato” (la sua Sicilia sempre nel cuore) né le sue ultime riflessioni sulla natura dell’essere umano, aspramente criticato per coltivare ancora il suo istinto primitivo di “uomo delle caverne”, di cui la guerra appena conclusa ne era stata una tragica testimonianza.

 

Nei nostri due articoli ci assumiamo il compito di offrirvi una breve antologia della sua opera e dei suoi temi: dal destino dell’“emigrato”, sia pure a condizioni materiali ben differenti dallo spostamento “biblico” -negli anni ’60- della popolazione dal sud agricolo dell’Italia verso un nord industriale, fino all’uomo impegnato a costruire un “nuovo umanesimo” dalle ceneri di un’Italia travolta e distrutta dalla guerra.

 

 

Iniziamo da questa breve e “fulminante” lirica di tre versi, da cui

 

il titolo dell’omonima raccolta!

Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

E con questo fine all’ “estetismo” e al “neopetrarchismo” in stile dannunziano.Passiamo alle poesie da esule strappato alla amata Sicilia.

 

Ora che sale il giorno (dalla raccolta Ed è subito sera. Poesie, 1942)

Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,

tramonta nei canali.

È così vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,

ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura,
per restare solo a ricordarti.

Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre bette il piede dei cavalli!

 

Oboe sommerso (dalla raccolta Oboe sommerso, 1932)

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

in me si fa sera;
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.

Vento a Tindari (dalla raccolta Acque e terre, 1930)

Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima

A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

 

 

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