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In questa seconda parte diamo spazio a composizioni poetiche pubblicate subito dopo la guerra e che hanno al centro una riflessione sull’uomo e sulla sua “capacità” distruttiva ed autodistruttiva.

 Le tematiche affrontate sono molto importanti: il degradarsi della umanità nell’ultimo conflitto, la nuova “guerra fredda”, l’enorme capacità di devastazione della sua ultima invenzione, la “bomba atomica”.

Noi ci permettiamo un’unica osservazione: a volte gli argomenti trattati sono così “pesanti” e coinvolgenti che fanno fatica ad entrare in armonia con la loro forma espressiva.

Quando invece questo accade ecco allora dei veri e propri capolavori, alcuni dei quali ve li riproponiamo qui di seguito, come un invito alla lettura.

 

Alle fronde dei salici (dalla raccolta Giorno dopo giorno, 1947)

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

Uomo del mio tempo (dalla raccolta Giorno dopo giorno, 1947)

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

“Ai fratelli Cervi, alla loro Italia” (da Quando caddero gli alberi e le mura, 1955)

 

In tutta la terra ridono uomini vili,

principi, poeti, che ripetono il mondo

in sogni, saggi di malizia e ladri

di sapienza. Anche nella mia patria ridono

sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria

malinconia dei poveri. E la mia terra è bella

d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure

di pietra e di colore, d’antiche meditazioni.

 

Gli stranieri vi battono con dita di mercanti

il petto dei santi, le reliquie d’amore,

bevono vino e incenso alla forte luna

delle rive, su chitarre di re accordano

canti di vulcani. Da anni e anni

vi entrano in armi, scivolano dalle valli

lungo le pianure con gli animali e i fiumi.

 

Nella notte dolcissima Polifemo piange

qui ancora il suo occhio spento dal navigante

dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.

Anche qui dividono in sogni la natura,

vestono la morte, e ridono, i nemici

familiari,. Alcuni erano con me nel tempo

dei versi d’amore e solitudine, nei confusi

dolori di lente macine e lacrime.

 

Nel mio cuore e finì la loro storia

quando caddero gli alberi e le mura

tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.

Ma io scrivo ancora parole d’amore,

e anche questa terra è una lettera d’amore

alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi,

non alle sette stelle dell’Orsa: ai sette emiliani

dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,

morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.

 

Non sapevano soldati, filosofi, poeti,

di questo umanesimo di razza contadina.

L’amore, la morte, in una fossa di nebbia appena fonda.

Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,

non per memoria, ma per i giorni che strisciano

tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.

 

 

 

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