1^ parte: di cosa stiamo parlando.
di Antonio Vargiu
PREMESSA
Affrontare dl punto di vista giuridico un tema come quello dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, cioè della “Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo” comporta la conoscenza di una serie di norme molto complesse e che vanno attentamente analizzate.
Per questo motivo abbiamo suddiviso la materia in due articoli: il primo passa in rassegna le vicissitudini della norma, fatta oggetto di modifiche tese a snaturarne la natura delle tutele previste dal legislatore del 1970; il secondo mette in evidenza come una serie di interventi della magistratura ha posto in gran parte rimedio a quello snaturamento, ripristinando lo spirito con cui era stata costruita la norma.
Qualcuno (non si sa se “spiritoso” o ignorante) se l’è presa con la “farraginosità” dell’art.18, ma come abbiamo riportato in nota, l’”originale” era molto semplice e preciso. La complicazione è stata procurata dai tanti Soloni, affaccendatisi alla sua manomissione.
Perché è necessaria una forte tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.
Come è noto, il tema è stato al centro di profonde discussioni e scontri tra governi e forze politiche e sociali: la destra pronta ad attaccare la tutela contro i licenziamenti ingiustificati, garantita dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori, i sindacati e le forze politiche progressiste impegnate nella sua difesa.
Contro la “manomissione” dell’art.18 (1): le ragioni spiegate da Gino Giugni, uno dei “padri dello Statuto”.
In realtà, chi più di Gino Giugni, socialista e illustre giuslavorista, ci può illustrare con chiarezza perché andava difesa questa norma come baluardo contro le discriminazioni e ingiustizie sul lavoro?
L’occasione del suo intervento -una intervista al sito on line “Eguaglianza e Libertà” (2)- è data dal referendum promosso nel 2003 da “varie sinistre” sindacali e politiche (Cgil ecc.) che mirava ad estendere le norme dell’art.18 anche alle aziende con meno di 16 dipendenti.
Intanto la spiegazione della genesi dell’articolo:
”Inizialmente nella prima bozza dello Statuto si manteneva l’impostazione già contenuta nella legge del 1966, che limitava l’obbligo di reintegro ai soli licenziamenti riconducibili a discriminazioni di carattere sindacale o politico, con una specifica attenzione ai licenziamenti di dirigenti sindacali, mentre il limite di dimensioni era confermato alle aziende con 35 dipendenti. La mediazione finale con l’accordo dei sindacati fu l’estensione del diritto al reintegro, stabilendo la soglia alle imprese con 15 dipendenti”.
Poi l’affermazione “solenne” di Giugni.
”L’attacco all’articolo 18 da parte dell’attuale governo fu in effetti una forzatura inaccettabile tesa fra l’altro a liquidare la pratica della concertazione. La difesa dell’articolo 18 era giusta. Nell’opinione comune era una sorta di simbolo, un’ultima spiaggia su cui bisognava resistere a oltranza. Diversa e sbagliata è la forzatura opposta di un’estensione indiscriminata”.
Le vicissitudini “storiche” di questo articolo.
La legge 92/2012, la cosiddetta “riforma Fornero del mercato del lavoro”.
Questa legge opera il primo stravolgimento del testo originario dell’articolo 18: si passa infatti da un testo “asciutto” e preciso ad uno pieno di “casi” governati da tutele estremamente differenti tra loro.
La legge Fornero, infatti, ha diviso i “licenziamenti ingiustificati” in due grandi categorie a seconda della gravità della illegittimità del provvedimento adottato, categorie a cui corrispondono tutele di diversa forza.
Tutela reintegratoria:
- piena;
- tutela reintegratoria “piena” (3):
- in tutti i casi di nullità del licenziamento, perché discriminatorio oppure intimato in concomitanza con il matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure per espressa previsione di legge;
- nei casi in cui il licenziamento sia inefficace perché intimato in forma orale.
È bene precisare che essa trova applicazione a prescindere dal numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro.
In tali ipotesi, il giudice, dichiarando nullo il licenziamento, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione.
- tutela reintegratoria “attenuata”(4):
- in caso licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo illegittimo perché il fatto contestato non sussiste o perché il fatto rientra in una delle condotte punibili con sanzione conservativa sulla base del CCNL applicabile;
- in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se il fatto è manifestamente infondato.
Il giudice, annullando il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Per il risarcimento è fissato un importo ridotto, con un limite massimo che non può in ogni caso superare un importo pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Il giudice condanna anche il datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione effettiva.
Tutela obbligatoria:
- piena;
- Tutela obbligatoria piena
Tale tutela si applica in tutte le ipotesi non contemplate dalle altre tutele, qualora il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro (5).
In tal caso il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.
- Tutela obbligatoria ridotta
Tale tutela si applica alle ipotesi in cui il licenziamento risulti illegittimo per carenza di motivazione o per inosservanza degli obblighi procedurali previsti per il licenziamento disciplinare o per il giustificato motivo oggettivo.
In tali casi il giudice, dichiarando l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità variabile tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, da valutarsi da parte del giudice in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro.
In sostanza la “riforma Fornero” amplia notevolmente i casi in cui a un licenziamento anche totalmente ingiustificato possa essere data una risposta che “risarcisce”, con più o meno soldi, una perdita di un posto di lavoro.
Ma ricordate il Titolo II sotto cui compare l’art.18? Parla “Della libertà sindacale” e se si abbassano le tutele dei lavoratori, si abbassa anche la libertà sindacale.
2015: nel “tritacarne” dello jobs act di Renzi finisce pure l’art.18 dello Statuto.
Ma la storia non finisce con la “Fornero”.
E’il governo Renzi che introduce una nuova e “definitiva” disciplina legislativa riguardante i licenziamenti. Le novità interessano in particolare tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015).
Il decreto legislativo n. 23/2015, sul c.d. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, attuativo del c.d. Jobs Act (Legge n. 183 del 2014), introduce un nuovo regime di tutela per le ipotesi di licenziamento illegittimo, destinato dapprima ad affiancare e quindi a sostituire il sistema di tutele previsto dall’art. 18 della Legge 300/1970.
In base alla nuova disciplina, il lavoratore ingiustamente licenziato avrà diritto, nella maggior parte dei casi, a percepire esclusivamente un indennizzo economico; la tutela reintegratoria viene invece limitata a poche e residuali ipotesi.
- Le ipotesi di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro
Il decreto legislativo 23/2015 stabilisce che il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato nei soli casi di:
- licenziamento discriminatorio a norma dell’art. 15 della Legge n. 300 del 1970;
- licenziamento nullo per espressa previsione di legge (decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 art. 2, co. 1);
- licenziamento inefficace perché intimato in forma orale (decreto legislativo 4 marzo 2015 art. 2, co. 1, ultima parte);
- licenziamento rispetto al quale il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (decreto legislativo 4 marzo 2015 art. 2, co. 4);
- licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa rispetto al quale sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (decreto legislativo 4 marzo 2015 art. 3, co. 2).
Nelle prime quattro ipotesi (licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore), il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità ovvero l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro, oltre alla reintegra del lavoratore, anche al pagamento di un’indennità a favore di quest’ultimo e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
In pratica il lavoratore ha diritto a ricevere il trattamento previsto in questo caso dalla “legge Fornero”, compresa l’opzione tra il ritorno al proprio posto di lavoro o l’ulteriore indennizzo economico pari a 15 mensilità.
L’indennità sostitutiva della reintegra non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
Anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, rispetto al quale sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il datore di lavoro è condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, e il dipendente ha diritto di percepire un’indennità risarcitoria come nei casi precedenti.
L’indennità, invece, non potrà essere superiore a dodici mensilità (mentre non è prevista un’entità minima, come invece stabilito per le altre ipotesi di licenziamento nullo o inefficace).
- Le ipotesi in cui al lavoratore spetta il solo indennizzo economico.
Fuori delle suddette ipotesi, in tutti gli altri casi di licenziamento individuale ingiustificato o intimato in violazione delle procedure prescritte dalla legge (ad es. in materia di licenziamento disciplinare), il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente una indennità che oscilla tra le 4 e le 24 mensilità (da 2 a 12, se si tratta di violazione procedurale).
Facciamo chiarezza in particolare sull’art. 3, co. 1, del decreto: si può avere un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa. In questi casi è sufficiente che il fatto sussista anche se valutato in maniera troppo pesante. Conseguentemente il giudice è chiamato ad accertare l’illegittimità del licenziamento, dichiara l’estinzione del rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio (la base di calcolo è costituita, anche in questo caso, dall’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto).
In ogni caso, l’indennità non potrà essere inferiore a 4 mensilità, né potrà superare le 24 mensilità.
Non c’è quindi reintegrazione nel posto di lavoro come nel caso A. perché non viene dimostrata l’insussistenza del fatto (!).
Il medesimo regime sanzionatorio (indennità pari a due mensilità per ogni anno di servizio, comunque ricompresa tra 4 e 24 mensilità) trova applicazione anche nei casi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione della procedura prescritta dalla legge (in particolare, le procedure richiamate all’art. 4, co. 12, Legge 223 del 1991) o per violazione dei criteri di scelta (art. 5, co. 1, Legge 223 del 1991).
Al lavoratore spetta un mero indennizzo economico anche nell’ipotesi di licenziamento illegittimo per violazione del requisito della motivazione (art. 2, co. 2, legge 604 del 1966) o per violazione della procedura prescritta dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
In questi casi, tuttavia, l’indennità risulta dimezzata: sarà pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 2 mensilità e un limite massimo pari a 12 mensilità.
- Le novità relative ai dipendenti dei datori di lavoro che non soddisfano i requisiti dimensionali dell’art. 18 della Legge 300 del 1970
Il decreto sul contratto a tutele crescenti si occupa anche dei dipendenti presso strutture che non raggiungono le soglie numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18.
In particolare, l’art. 9 del decreto legislativo 23 del 2015 prevede che, nei confronti di tali lavoratori, trovi applicazione il medesimo regime di tutele previsto per i dipendenti delle imprese di maggiori dimensioni, con due significative differenze: è esclusa la reintegra nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e la tutela economica risulta sostanzialmente dimezzata.
Vale a dire che, in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore occupato presso un datore di lavoro minore, la reintegra avverrà solo nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo, orale o per motivo riguardante la disabilità fisica o psichica del lavoratore.
Negli altri casi, il lavoratore avrà diritto esclusivamente a un indennizzo economico, pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio e con un limite massimo di 6 mensilità.
Note
1) Art.18 Statuto: il testo originario.
«Ferma restando l’esperibilità delle procedure previste dall’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’art. 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento di cui sia stata accertata la inefficacia o l’invalidità a norma del comma precedente.
In ogni caso, la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione, determinata secondo i criteri di cui all’art. 2121 del codice civile.
Il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma precedente è tenuto inoltre a corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza stessa fino a quella della reintegrazione.
Se il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito del datore di lavoro non abbia ripreso servizio, il rapporto si intende risolto.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva.
Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’art. 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
L’ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l’ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell’art. 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L’ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa…».
- eguaglianza e libertà.it, Intervista a Gino Giugni a cura di Bruno Ugolini, martedì 3 giugno 2003.Share
- Tutela reintegratoria “piena”:
Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione e non può in ogni caso essere inferiore alle cinque mensilità. Dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.
Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità- entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza- di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
- Tutela reintegratoria “attenuata”:
Il risarcimento, in questo caso, corrisponde ad una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto sia ciò che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.
Anche in questo caso, il lavoratore può optare per l’indennità sostitutiva della reintegra.
(5) Il caso di licenziamento per giusta causa è talmente grave da non consentire la prosecuzione, nemmeno in modalità provvisoria, del rapporto di lavoro; mentre nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, la condotta è grave ma non così tanto da interrompere immediatamente il rapporto di lavoro.